LA DISCESA AGLI INFERI DI BEATO ANGELICO

“Era disceso nelle regioni inferiori della terra. Colui che discese è lo stesso che anche ascese.”
[Efesini 4,10]
Se la Resurrezione di Cristo è ampiamente documentata dall’arte di ogni tempo, risultano più rare le raffigurazioni della mistero della discesa agli inferi.
In parte per la difficoltà di indagare il buio del sepolcro di quei tre giorni, in cui Cristo rimase come sospeso tra terra e cielo.
Gesù discese dopo la sua morte agli inferi con la sua divinità e con la sua anima umana.
Ma non con il suo corpo, che incorrotto per azione dello Spirito Santo, riposava nella tomba.
All’interno delle mura del convento di San Marco in Firenze, i frati e i fratelli laici domenicani, accompagnati quotidianamente per Regola dal memento mori, la meditazione sull’ora ultima e definitiva che sigillerà tutte le nostre opere, potevano indugiare nella contemplazione di questo Mistero.
Fra Giovanni da Fiesole, insigne pittore tra i frati, universalmente conosciuto come Beato Angelico, decorò il Convento di San Marco, adornandolo per ben due volte con tale rappresentazione.
Una prima discesa agli Inferi, di mano certa dell’Angelico, la troviamo nell’Armadio degli Argenti.

La seconda, dove gli autori riconoscono l’aiuto degli allievi, è affrescata nella cella 31.
L’iconografia è molto simile.
Ma il graduale passaggio di luce dagli inferi al Cristo è oltremodo suggestivo nell’affresco.
Questa cella era riservata ai fratelli laici, i quali dovevano trarre, dall’esempio della vita del Salvatore, motivo di meditazione proprio sul senso ultimo delle loro opere.
Loro che cercavano la salvezza in quelle azioni che solo la fede sa suggerire, esercitavano il loro operato attraverso la via maestra della carità.
Quale Carità più grande poteva esserci di quella di Cristo, nel liberarci dalla morte eterna?
In questa discesa du Cristo nel Limbo vediamo gli inferi.
Gli inferi, non l’inferno.
Il Regno dei morti, non quello della dannazione eterna.
Il limbo era quel luogo, espressione della condizione di coloro che erano morti col debito del peccato originale, senza poter giungere alla visione beatifica di Dio.
Già dal XIII secolo in poi il limbo era stato codificato.
Se sant’Agostino nutriva un’idea molto radicale del limbo, negando una parziale salvezza ai pagani, san Tommaso ne definì la struttura: il limbo, “pars quaedam superior” dell’inferno, era suddiviso in “limbus patrum” e “limbus peuerorum”.
Venne definito ancor meglio da san Bonaventura.
“Animae… carebunt actuali dolore et afflictione… quasi medium teneant inter beatos et aeternis ignibus cruciato… ut… nec laeten tur nec tristentur, sed semper sic uniformites maneant”
[Liber II sent, d. 33 a. 2]

[Le anime [del Limbo] saranno prive del dolore attuale e della sofferenza… quasi rimanendo a metà tra beati e condannati ai fuochi eterni, in modo che non siano né tristi né liete, ma sempre restino in tale uniforme stato].
Nell’ambito di questa dottrina Dante definì il Limbo come primo cerchio dell’Inferno, in quanto l’esclusione dalla vista di Dio è di per sé il male peggiore.
Ma non fa parte dell’Inferno vero e proprio: Minosse, il giudice infernale, compare volutamente al canto successivo, sottraendo il limbo alla giurisdizione di Lucifero.
“Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ‘n quel limbo eran sospesi.”
[Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto IV]
In tale caverna profonda, Cristo, nel fulgore del suo apparire, entra come sospeso tra cielo e terra.
La caverna è icona degli inferi, ma anche, secondo la visione neoplatonica, simbolo della condizione umana, che ci impedisce la comprensione della vera realtà, che ci appare solo come ombra su una delle sue pareti di roccia, e non nella pienezza della comprensione offerta dalla Sapienza divina.
Con la sua irruzione una grande luce pervade quell’oscurità. La luce è emanata dalla sua figura gloriosa. Le sue vesti sono candide e splendenti. Ma non nascondono i segni dei chiodi sulle mani e sui piedi. Cammina sulle nubi. Ha in mano il vessillo vittorioso della Croce, simbolo della vittoria sulla morte.
Gesù porta quindi un labaro [cioè un vessillo con asta da cui pende un drappo con croce purpurea]. Il labaro era una insegna militare romana, che veniva utilizzata solo quando l’imperatore si trovava con l’esercito. Era costituito da un drappo quadrato purpureo e frangiato in oro, attaccato a una lancia. Sul drappo era ricamata con fili d’oro un’aquila, simbolo di Giove.
L’origine del labaro cristiano deriverebbe secondo Eusebio dall’apparizione a Costantino di una croce nel cielo di Gallia con le parole:
“ἐν τούτῳ νίκα” cioè “vinci con questo”.
“Quando il giorno sta già incominciando a tramontare, vide con i suoi propri occhi il trofeo di una croce di luce nei cieli, sopra il sole, e l’iscrizione “con questo segno vincerai” (in hoc signo vinces) ad essa unita. A questa visione egli stesso fu preso dalla meraviglia, e anche il suo intero esercito, che lo seguì in una spedizione e testimoniò il miracolo.”
[Eusebio di Cesarea – Vita Costantini I, 27-28]
Al vertice del labaro di Costantino vi era il chrismon, combinazione di lettere dell’alfabeto greco che formano una abbreviazione del nome di Cristo, circondato dalla corona d’alloro.
Quindi, il fatto che Gesù appaia con il labaro simboleggia il suo ruolo di sovrano dell’Universo, presente insieme ai suoi fedeli, di divinità e di combattente vittorioso sul Male e sulla morte.
Scardina la porta degli inferi e un demonio rimane schiacciato sotto di essa. Il diavolo, schiacciato sotto la porta, è simbolo della “comicità del Male”, del suo aspetto grottesco, che rende pericolosi, ma anche ridicoli gli esseri umani che si abbandonano ai suoi influssi.
Altri, abbagliati dalla luce, si rifugiano nell’oscurità dell’antro. Il male non può sopportare la luce della santità.
La menzogna e la verità; il buio la luce.
Così l’ospite della cella poteva, attraverso l’esempio di questo mistero, ricordarsi che la meta definitiva la si decide ogni istante, scegliendo la luce contro le tenebre, la verità contro la menzogna.
Un antico autore, che certamente fra Giovanni conosceva, racconti di un suggestivo dialogo tra Cristo e Adamo.
“Gesù preso Adamo per mano, lo scosse dicendo: Svegliati tu che dormi e risorgi dai morti! Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; Svegliati tu che dormi! Non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno! Risorgi dai morti!”.
[Omelia del Sabato Santo, attribuita a Epifanio di Salamina di Cipro, IV secolo]
L’artista sceglie invece una diversa interpretazione, più legata al Vangelo di Matteo.
L’evangelista infatti, nella sua genealogia inizia a contare le generazioni che hanno preparato la nascita di Cristo da Abramo e non da Adamo.
Qui è proprio Abramo ad accogliere festoso il Salvatore. Il patriarca, con un balzo raggiunge il Risorto e gli tende le mani. Cristo risponde tendendo la mano destra. Quasi un rimando alla divina dextera dei.

La figura del vegliardo è luminosa e ferma. Certo della salvezza, Abramo è raffigurato con la medesima luce e ieraticità del Cristo.
“Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.
[Giovanni 14,6]
Gesù è la Vita e la Vita non può morire. L’anima di Cristo risplende nel buio degli Inferi.
Abramo è in tutto simile a Cristo perché fu Padre della fede di molti.
“Abramo è il padre nella fede, egli offrì in sacrificio a Dio il suo unico figlio Isacco, perché pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti”.
[Ebrei 11,19]
Dietro la figura del patriarca, vestiti con tuniche di pelli, scorgiamo i progenitori. Adamo ed Eva, con le mani giunte in preghiera o raccolte sul petto, attendono anch’essi la salvezza.
Adamo è attento a dove mette i piedi. Sembra replicare i passi di Abramo, quasi non volesse sbagliare nuovamente, mettendo un piede in fallo dentro le crepe dello sheol [sci-ol]. Eva dirige lo sguardo verso la luce.
Attorno a loro, i patriarchi e profeti tutti, attendono nella loro processione di essere liberati dalla schiavitù antica.
La folla è contrassegnata da aureole luminose, rappresentando tutto il popolo di Dio che attende la Redenzione.
In questa processione parve a un eminente studioso:
“avere l’Angelico di forza e di poesia vinto e superato se stesso e gareggiato coll’Alighieri”.
[Giovanni Rosini, Storia della pittura italiana, 1835-1837]
“Vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abel suo figlio e quella di Noè.
Di Moisè legista e ubidente.
Abraam patriarca. E David re.
E altri molti, e feceli beati”
[Dante, Inferno IV, 53-61]
Le porte degli Inferi, ormai scardinate dal loro posto non possono più nuocere all’uomo, anzi Cristo fa di loro un ponte sulla morte.
Nell’arte orientale, le icone della discesa agli inferi presentano spesso la Croce, che ai piedi del Salvatore diventa il ponte che traghetta le anime dei progenitori dalle tenebre alla luce.
Qui il simbolo diviene la porta:
“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.”
[Giovanni 10,9]

Opere come quella dell’Angelico aiutano il fedele a meditare quotidianamente sul destino eterno dell’uomo.
E nel memento mori non può che maturare la cultura della vita.
“Io sono la vita dei morti. Risorgi opera delle mie mani!
Risorgi mia effige, fatta a mia immagine.
Risorgi, usciamo da qui!”
[Omelia del Sabato Santo, attribuita a Epifanio di Salamina di Cipro, IV secolo]
Ecco video di Ars Europa che racconta l’affresco:

